GOLIARDICA EDITRICE
L'Onore di Roma
casa editrice: GOLIARDICA EDITRICE
categoria: storia
autore: Marano Loredana Salvatore Conte
pagine: 452
formato: 12x19
prezzo: 18,00 €
edizione: 2011
codice ISBN: 9788878731219
Descrizione
Frettolosa un’ombra passò rasente il basamento del tempio di Giove Statore, sotto il Palatino. Le terse lastre di marmo che lo rivestivano riflettevano i raggi della luna e proiettavano sul pavimento macchie oblunghe. Su tutto incombeva con la sua larga e ramificata chioma un imponente albero di fico. Seguiva un’altra figura, più incerta nel procedere…
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Fra i tanti misteri, che la storia cela ancora, spicca il dramma della morte di Agrippina, l’Augusta, moglie dell’imperatore Claudio e madre di Nerone. Ultima erede di Giulio Cesare, determinata a seguire le orme del grande condottiero nell’incrociare ambizione con l’Onore di Roma, indirizzò la sua attenzione verso quelle terre, la Germania e la Britannia, che avevano la forza morale per farsi eredi della cultura romana. La forte personalità di Agrippina si mosse in un clima di accese passioni, di feroci contrasti, che maturarono e bruciarono nel Palazzo negli anni 58-59 d.C. Ma Agrippina si impone come donna, che mostra tutti gli aspetti della femminilità, tanto che nei secoli, nonostante il pesante giudizio di condanna nei suoi confronti, ha suscitato ammirazione e seduzione in grandi personaggi, a cominciare da Tacito, Plinio e Racine.
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Gli autori, nel rispetto delle fonti, hanno tracciato la vicenda, appassionante per alleanze e scontri, amicizie e odi, valori e mediocrità, in una sapiente rilettura del passato, narrativa e storica nel contempo. Agrippina non è, dunque, solo segno dei tempi in cui visse, ma, in questo modo, diventa paradigma della condizione umana.
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Presentazione del critico
Non intendo riassumere o raccontare intrecci, ma condividere con voi alcune impressioni e riflessioni sul romanzo o, meglio, su una parte di esso, su un frammento, il titolo “Agrippina latens”. Il nome scelto offre al lettore l’oggetto del testo, la protagonista, il concetto: Agrippina, però, è connotata come ‘latens’, dunque un personaggio che non si dà, non si offre, ma si nasconde, si sottrae. E’ proprio questa connnotazione di Agrippina ‘latens’, che rivela un problema intensamente affrontato dagli autori nel romanzo, quello di una figura antica che è qualcosa di diverso dalla ricostruzione storica di un contesto, di un microcosmo. Per essere fedeli ad Agrippina, di cui non potremo mai realmente conoscere il personaggio storico, gli autori hanno applicato “l’uso scientifico dell’immaginazione”per riempire i vuoti, gli spazi tra i resoconti finiti fino a noi e i fatti contestuali.
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I risultati di questo lavoro a livello tematico, fabula/intreccio li verificherete leggendo questo saggio storico, romanzo storico, ibrido, o semplicemente questo romanzo. In questa sede vorrei sottolineare la soluzione che coincide con la novità, a livello di struttura, di organizzazione logica della materia narrativa in due parti/sezioni, una parte che definiremo “romanticismo” e una “storica”, come se proprio quel latens costringesse la scrittura letteraria a chiedere “dati”, prestiti alla scrittura storica e viceversa, talvolta è la storia a “immaginare” letterariamente.
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Ecco allora la dialogicità tra narrativa letteraria e narrativa storica, entrambe impegnate a soppesare la probabilità e scegliere le più verosimili.
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Dunque la separazione “fisica” tra queste due scritture, quella letteraria e quella storica, sta per il riconoscimento delle rispettive verità: è vera la ricostruzione storica di Agrippina, ma è altrettanto “vera” la ricostruzione letteraria. Agrippina diventa depositaria di due verità: di quella storica, e quindi fattuale, concreta particolare, e di quella letteraria, morale, astratta, universale, una verità che cerca di fissare ciò che avviene a tutti gli uomini in qualsiasi luogo e tempo.
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In questa “Agrippina latens”, concetto e allo stesso tempo metafora estetica, ci siamo anche noi e ci saremo sempre, ogni volta che nella storia si ripropone il conflitto individuo e potere. E noi saremo sempre dalla parte dell’individuo.
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Prof.ssa Giuseppina Gambin - Liceo scientifico "A. Einstein", Cervignano del Friuli
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L’opera che qui presentiamo si inserisce, in maniera esemplare, nel genere letterario del romanzo storico postmoderno. Nel suo complesso, la trama si presenta come ciò che la critica letteraria Linda Hutcheon ha definito con il termine tecnico di “historiographic metafiction” . Si tratta, cioè, non tanto della creazione ex novo di trame e personaggi di fantasia, inseriti nel contesto di una data epoca storica, come avveniva nel romanzo storico ottocentesco (pensiamo ad esempio a I promessi sposi di Manzoni), ma della trasformazione in finzione letteraria di eventi e personaggi già conosciuti dalla storia, dei quali si forniscono nuove versioni romanzate, spesso in contrasto con la realtà storica, in un contesto di pensiero che tende anzi a rifiutare l’idea stessa di un’unica verità storica oggettivamente ricostruibile, ma propone nuove ipotesi su come le cose sarebbero potute andare diversamente.
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Gli esempi più famosi di questo nuovo genere letterario di romanzo storico postmoderno sono Il nome della rosa di Umberto Eco (1980), Il generale nel suo labirinto, di Gabriel García Marquez (1989), Mason&Dixon di Thomas Pynchon (1997), e soprattutto, per il coinvolgimento di tematiche relative alla tradizione di Tacito, il recente Die Zweifel des Salaì di Rita Monaldi e Francesco Sorti (2008). ….
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Nel complesso, dunque, vorrei osservare che il romanzo si fa apprezzare non tanto perché rivelerebbe chissà quale grande scoperta storiografica, ma appunto perché è un buon romanzo: ben ideato e ben scritto, con un vivace ritmo narrativo, scandito da capitoli brevi e frasi spesso anch’esse brevi e concise, con uno stile direi a tratti senecano o anche tacitiano. Certamente, l’uso della numerazione dei capitoli con la doppia cifra mi è sembrata però un po’ pesante, più da articolo che da libro, così come la cronologia che si ripete identica di capitolo in capitolo, quando sarebbe bastato indicare solo i cambiamenti cronologici che danno origine ai flashback. Non ho capito, poi, perché la genesi della congiura dei Pisoni sia retrodatata al settembre del 60 (p. 122), quando invece in Tacito (Annales 15, 48-71) essa è concepita nel 65. Similmente, l’ultimo capitolo, datato all’ottobre del 60, si parla già della morte di Nerone, avvenuta nel 68.
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Certamente, confrontarsi con un modello di stile insuperabile come Tacito, è un compito arduo per qualunque scrittore. Ad esempio, a proposito del naufragio causato dal sabotaggio alla nave di Agrippina, il capitolo 14,5 degli Annales di Tacito si apre con un tocco stupendo, di grande suggestione poetica e nello stesso tempo di atroce ironia nei confronti della macchinazione neroniana: “Era una notte splendente di stelle e tranquilla per calma di mare: sembrava concessa dagli dèi per rendere manifesto il delitto”.
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Senza dubbio, il naufragio in un mare di calma piatta è qualcosa di assai più surreale, ma proprio questo è Tacito scrittore. Similmente, il messaggio di Nerone al Senato, riassunto da Tacito in Annales 14, 11, prevede una serie precisa di capi d’accusa politicamente rilevanti, come la pretesa di ottenere il giuramento di fedeltà dai pretoriani. Inoltre, la sequenza dei fatti relativa all’ultima notte di Agrippina risulta maldestramente invertita, per mettere in luce l’ipocrisia dell’imperatore. Questa lettera imperiale diventa nel romanzo una tirata puramente retorica contro Agrippina, che mette fin troppo alla berlina la maldestra scrittura neroniana, che si apre con l’indirizzo ai patres conscripti, al plurale, ma si chiude con il saluto vale, al singolare.
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Nel complesso, comunque, il romanzo riesce a reggere il confronto con un modello così alto come quello tacitiano, e si fa apprezzare per la precisione dell’ambientazione storica, un compito particolarmente difficile, dal momento che sono ancora troppe le cose che ignoriamo a proposito della vita quotidiana nell’antichità.
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Particolarmente felice mi è sembrata poi l’idea di introdurre nella vicenda, che ha come protagonista la nobile Agrippina e altri personaggi di spicco degli Annales di Tacito, una serie di figure minori, di umile estrazione, come il cuoco Marus (p. 6) o le ancelle Flann e Lasar (p. 45). L’introduzione di personaggi di questo tipo è già un espediente tacitiano, il quale com’è noto imposta il racconto della fine di Agrippina come una vera e propria sceneggiatura tragica, che assume però inevitabilmente il carattere di ciò che nel teatro latino veniva chiamato “tragicommedia”. Il termine latino, ovviamente, non deve essere confuso con lo stesso termine che viene impiegato nel teatro moderno. Come ci dice Plauto, nel prologo dell’Anfitrione (vv. 50-63), in cui per la prima volta fa la sua apparizione la parola latina tragicommedia, il centro semantico del termine non denota la commistione di riso e pianto, ma la compresenza di personaggi nobili e umili. Come dice lo stesso Plauto, un’opera in cui compaiono assieme sulla scena, da un lato re e dèi, e dall’altro umili servitori, non può essere una tragedia, ma diviene necessariamente una tragicommedia. Il grammatico Diomede riprenderà poi il concetto, parlando in proposito di humiles personae (GLK I, 488), in contrapposizione agli eroi della tragedia. Qualcosa di simile si trova anche nel teatro di Shakespeare, ad esempio nel personaggio di Falstaff, il cui modello è appunto il Pirgopolinice del Miles gloriosus di Plauto.
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Naturalmente, l’introduzione di questi personaggi “bassi”, nel romanzo di Marano e Conte, non ha uno scopo comico, ma coglie con estrema precisione uno dei valori essenziali che la commedia latina ha trasmesso alla cultura universale. Si tratta precisamente della scoperta dell’umanesimo.
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Com’è noto, il merito decisivo per la formazione dell’idea di humanitas va riconosciuto a Terenzio, nelle cui commedie, alle beffe plautine, si sostituiscono vicende familiari basate sul contrasto dei sentimenti, e in primo luogo sul problema dell’incomunicabilità tra le persone. Soprattutto, in Terenzio troviamo quella che è universalmente considerata la migliore sintesi del concetto di humanitas, cioè la celebre massima dell’Heautontimorumenos:
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Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Ter. Heaut. 77).
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In tal modo, l’uomo rivendica il diritto-dovere di interessarsi ai problemi degli altri uomini, con un atteggiamento di solidarietà e condivisione. La formulazione così perfetta della dignità di ogni uomo è davvero uno dei punti più alti toccati dal teatro latino arcaico.
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A me sembra che questo carattere di humanitas terenziana pervada l’intero romanzo di Marano e Conte, in cui si trovano pagine piene di vivissima umanità. Per questo motivo, il romanzo, pur possedendo senza dubbio alcuni caratteri tipici della narrativa postmoderna, come la finzione metastorica, non corre mai il rischio di divenire uno sterile gioco intellettuale di smontaggio e riassemblaggio di materiali tradizionali, nella prospettiva dell’indifferenza o della distruzione dei valori, un atteggiamento che caratterizza ad esempio un autore come Umberto Eco.
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Al contrario, ponendosi decisamente in antitesi rispetto al conformismo antiumanistico del mondo postmoderno, il romanzo risulta alla fine estremamente coinvolgente sul piano dei sentimenti più autenticamente umani, sia della protagonista Agrippina, sia degli altri personaggi, nobili e umili, che gravitano intorno a lei. La lettura ci porta alla riscoperta di valori poetici e spirituali positivi, sia in Agrippina sia negli altri personaggi minori, ci fa vivere l’autenticità dei sentimenti eterni dell’amicizia e dell’amore.
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Inoltre, la lettura del romanzo ci fa vivere con grande nitidezza la straordinaria esperienza di un viaggio avventuroso, lungo le strade dell’impero romano, fermandoci nelle tante mansiones lungo la strada e incontrando le popolazioni più svariate. Soprattutto, in un continuo riecheggiamento di brani della Germania e dell’Agricola di Tacito, rispettivamente per la descrizione della Germania e della Britannia, il romanzo ci fa riflettere sull’incontro e il dialogo profondo tra culture diverse, come quella latina e quella germanica, destinate a fondersi nella nuova comune civiltà europea medioevale e moderna.
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In conclusione, mi sembra di poter affermare, che il romanzo qui presentato costituisce senza dubbio uno tra i migliori esempi di come sia ancora possibile, per il romanzo postmoderno, confrontarsi in modo costruttivo con i classici, con un atteggiamento serio e coinvolgente, cogliendo alcune verità poetiche e umane profonde, e proponendo soluzioni originali a problematiche antiche. Reagendo giustamente contro il dogma che impone agli scrittori contemporanei nei confronti dei classici il distacco intellettuale o il rovesciamento parodico, questo romanzo colto e raffinato ci dimostra come ancor oggi sia possibile davvero amare le letterature antiche, riconoscendo in esse un valore ancora attuale per l’uomo contemporaneo.
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Renato Oniga - Università di Udine
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Quest’anno va di moda Nerone. C’ è una mostra in corso a Roma, su di lui (“Nerone”, una mostra dislocata tra Curia Iulia e Colosseo, aperta fino al 18 settembre), e numerosi articoli la prendono a pretesto per riscattare la sua immagine agli occhi dell’opinione pubblica. Certo, la storiografia antica è andata giù pesante con l’eterno pupo, narcisista ed egotista, che è stato Nerone. E in linea con questa immagine consolidata, è fresca nella nostra memoria la parodia grottesca che ne fece il grande Petrolini. Non a caso durante il Ventennio. Come Nerone, approfittando dell’incendio di Roma, sbancava la Suburra per costruire la sua Domus Aurea, così Mussolini sbancava il quartiere Monti per edificare via dei Fori Imperiali. La storia del passato è storia contemporanea, ci ha ricordato Silvia Ronchey citando Benedetto Croce nel suo recente libro su Ipazia. E ora in questo romanzo a due mani di Loredana Marano e Salvatore Conte, L’onore di Roma (Goliardica editrice, Trieste 2010), c’è un’altra affascinante figura femminile del passato che torna a parlarci, forse, del presente. Questa donna è Agrippina, proprio la madre del pupo che ora si cerca di riabilitare.
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Agrippina, o meglio Agrippina minore, era figlia di Agrippina maggiore e di quel Germanico della cui scomparsa prematura fu sospettato lo zio invidioso della sua popolarità, l’imperatore Tiberio. La madre di Agrippina minore era figlia di Giulia, l’unica figlia di Augusto, che aveva sposato Agrippa, l’ammiraglio di Augusto. Agrippina minore era sorella dell’imperatore Caligola. Agrippina minore era l’ultima moglie dell’imperatore Claudio. In dote a quelle nozze, portò il figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone, e fu accusata dalle fonti di aver eliminato Claudio per spianare la strada del potere al figlio. Lo storico Tacito racconta che, interrogando un indovino sulla sorte di Nerone, dopo essersi sentita rispondere che suo figlio avrebbe regnato a prezzo del sangue, Agrippina gli rispose a muso duro <<Uccida pure, purché regni, e porti sul proprio capo la sventura della mia morte>>. Agrippina fu eliminata dal figlio nel 59 d.C.
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O no?
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Per giustificare il matricidio, la versione ufficiale la accusava di aver attentato alla vita del figlio. E la “nemica” pubblica venne condannata alla damnatio memoriae. Ma forse qualcosa di quello che aveva scritto sopravvisse alla sua morte. Già, scopro leggendo il corposo apparato di note che accompagna il romanzo: Agrippina scrisse dei Commentarii – unica donna romana a farlo, a osarlo – e a questi deve aver attinto lo storico Tacito per gli Annales. Ma i Commentarii di Agrippina non sono arrivati fino a noi.
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E poi c’è un’altra opera, di incerta attribuzione, bellissima, inquietante, che viene passata al vaglio nelle note di questo romanzo. È una tragedia, l’ Octavia. L’unica fabula togata del teatro romano giunta fino a noi. Ottavia era la figlia di Claudio che Agrippina costrinse Nerone a sposare. Ottavia non sopravvisse alla morte di Agrippina, eliminata anche lei, come Agrippina, che aveva cercato di proteggerla e di salvare il matrimonio opponendosi con le unghie e con i denti alla passione di Nerone per la moglie di Otone, Poppea.
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Gli autori del romanzo insinuano che quella tragedia potrebbe averla scritta solo Agrippina. E se non lei, qualcuno molto vicino a lei. La tragedia è intitolata a Ottavia, ma è un pretesto per parlare di Agrippina e di quel delitto enorme, indicibile, del matricidio. E poi c’è un elemento sospetto, nel testo. Si paragona Ottavia – o meglio, una Ottavia come maschera letteraria di Agrippina – alla figura mitica di Ifigenia, sacrificata anche lei alla ragion di stato. Ma Ifigenia, nella tragedia greca, veniva salvata in extremis dalla dea Artemide e trasportata lontano, in Tauride. Nell’ Octavia l’ignoto autore vuole forse insinuare che anche Agrippina si è salvata, e che si è rifugiata altrove, lontano da Roma?
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È da questa ipotesi che prende avvio la finzione narrativa del romanzo. Quella notte tremenda di marzo, nel periodo delle feste Quinquatrie dedicate a Minerva, Agrippina non è morta per mano dei sicari, in casa sua, dopo averla raggiunta scampando miracolosamente al naufragio della trireme su cui il figlio l’aveva fatta imbarcare.
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Per conferire verosimiglianza storica a questa ipotesi, il romanzo racconta su quale rete di complicità e solidarietà avrebbe potuto contare Agrippina, passando in rassegna i contemporanei più noti, ma anche quelli che lo sarebbero diventati più tardi.
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Se fosse sopravvissuta all’attentato, avrebbe, Agrippina, approfittato dei suoi sostenitori e degli oppositori di Nerone per rovesciare suo figlio? Per gli autori, no. Il suo senso dello stato, dell’ “onore di Roma”, appunto, era in lei troppo forte.
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Presumibilmente Agrippina si sarebbe nascosta in Germania, a Colonia, o meglio Colonia Ara Sacra Agrippinensis, la città a lei dedicata sulla sponda del Reno, in quella terra che le aveva dato i natali.
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Ma prima di arrivarci, la Agrippina letteraria deve affrontare un lungo viaggio tortuoso, e l’intreccio del romanzo amplifica l’effetto attraverso flashback e anticipazioni, sicché il viaggio nello spazio diventa anche viaggio nel tempo. E non solo indietro, nella rievocazione degli eventi passati che hanno preceduto la tragedia. Anche avanti, nel futuro, suggerendo che il passaggio di Agrippina abbia messo in moto un meccanismo inesorabile che avrebbe determinato gli eventi degli anni a venire per effetto del fulgido esempio della sua condotta. Aveva rinunciato alla vendetta, una vendetta che avrebbe gettato nel caos l’impero. Quale migliore esempio di nobiltà e disinteresse, di amore sincero per il destino di Roma?
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Agrippina, la Agrippina del romanzo sovrapposta alla Agrippina storica, è tre volte “latens”, come la dea dei crocicchi: uno, perché nella finzione letteraria si immagina nascosta in Germania, due, perché la sua personalità storica ci è stata sottratta dalla damnatio memoriae e infine, tre, perché come donna romana non avrebbe mai potuto avere un ruolo da protagonista sulla scena politica. Avrebbe potuto tenere le fila del potere rimanendo nell’ombra. Nel cono d’ombra di suo figlio, finché le fu possibile. Nel cono d’ombra della morte presunta, immagina il romanzo, quando, per sottrarsi alla sua influenza e al suo pericoloso ascendente su altri uomini, il figlio dovrà privarla della vita nel timore di vedersi privato del potere.
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Nelle circostanze eccezionali del tentato omicidio, la nostra Agrippina letteraria ha fatto esperienza del conformismo e della vigliaccheria degli uomini. Ma ha anche maturato la consapevolezza che non era solo il figlio a vederla come una minaccia. Non si passa alla storia con lo sprezzante giudizio di dux femina, se non si è stati cotti al fuoco lento della riprovazione sociale.
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E così, cos’altro resta ad una donna per rassicurare della sua innocuità tutti gli uomini a lei ostili, e perfino quelli che potrebbero diventarlo illudendosi di possederla? Si rinuncia alla ribalta, perché a ben guardare la politica a Roma è morta con la fine della libertà, ma Roma no, l’idea di Roma è ancora incorrotta e genuina nelle province. I giochetti di potere, se gli piace così tanto giocare, la nostra Agrippina li lascia agli uomini. Lei ha cose più importanti da fare. Salvaguardare questa idea, per esempio. Lontano da Roma. Nell’ombra, lasciando lo sfavillio del palcoscenico agli uomini che credono di fare la storia.
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Maria Letizia Verola - Liceo scientifico "Ulisse Dini", Pisa
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Ad affrontare il volume di Loredana Marano, sorge immediato lo stimolo di una domanda come si suol dire “tecnica”: a quale genere letterario esso appartiene?
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La scrittrice, infatti, forte della sua esperienza di umanista, ci trasporta nei momenti convulsi del principato neroniano, quando la vita e la morte ruotano attorno alla figura carismatica e indefinibile di Agrippina. E, dunque, romanzo erudito, con la riscrittura delle pagine tacitiane? Oppure fantasy archeologico, genere oggi fortunato e ben remunerato? O addirittura thriller in costume? La scelta è più sottile: partire dalle fonti, non solo tacitiane, per sviscerare il punto di frattura storiografico e spingere il lettore - davvero un buon lettore, così come lo intende Umberto Eco - a interpretare le fonti, andando oltre. Quanto di più diverso, insomma, dal cosiddetto peplum, genere tipico della cinematografia hollywoodiana anni cinquanta, con falsificazioni molto piacevoli, è vero, ma al tempo stesso non accettabili e che certo non fanno crescere. Se poi aggiungiamo un apparato storico-giuridico come quello curato da Salvatore Conte, si capirà come la piacevolezza della lettura non è così sbrigativa come si potrebbe credere.
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Sappiamo che il metodo tacitiano si avvale dell’ambiguità, il detto e il non detto, la parola dalle screziature disparate: non è reticenza, la sua, ma una sfida volutamente lanciata perchè, al di là della definizione puntuale dei fatti, si arrivi a una questione di fondo, ovvero: esiste l’oggettività dei fatti, oppure il mondo non è di per sé governato dal primato del punto di vista, con un soggettivismo spregiudicato? Saremmo, allora, nel campo del filosofia della storia. In questo modo, un romanzo che parte dai fatti e ne tratteggia le diverse interpretazioni, che svela ciò che irregolare e difforme, è davvero un grande servizio all’intelligenza della storia e, con esso, del lettore.
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Sappiamo inoltre che il metodo tacitiano è interessato alla dimensione teatrale della storia: i protagonisti di essa diventano immediatamente personaggi, obbedendo non solo alle regole della psicologia ma anche a quelle della drammaturgia. Non è semplicemente la fusione di vero storico e di verosimile poetico: Agrippina, Nerone, Seneca e gli altri si muovono sul gran teatro del mondo, imprevedibili a loro stessi, straziati dalla loro inquietudine e imperfezione e, contemporaneamente, simboli di ben precise categorie umane che non smettono mai di reincarnarsi e di aggirarsi tra noi.
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Prendiamo Seneca, il predicatore di virtù che incarna, con disperata consapevolezza, il volto della finzione, senza più tollerare la propria ipocrisia: “Falsità? Adulazione? Menzogna? Oppure era una semplice adesione alle regole di palazzo? Non aveva mai saputo dare una risposta netta: se li assolveva, sarebbe stato ormai inutile predicare la virtù; se li condannava, avrebbe condannato anche se stesso” (p. 153). O Poppea, che “viveva la sua bellezza non come un dono degli dei, ma come instrumentum regni, come un mezzo per acquistare potere sugli altri” (p. 109). E Nerone, che si comportava come un dissennato, schiavo delle sue passioni, dominato dal fantasma della paura sin da quando aveva eliminato Britannico, il figlio giovinetto di Claudio, e in cui “l’abilità retorica era diventata medicina e veleno dell’anima” (p. 62).
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E soprattutto Agrippina, colta e risoluta, audace nei suoi disegni di potere, ma anche ammirevole nel rivendicare l’onore di Roma, il mandato, cioè, di imporre comando e leggi e, in sostanza, civiltà, ai popoli, dando ad essi unità. Qui gli autori optano per una scelta coraggiosa, camminando sul filo del rasoio storiografico: e se Agrippina non fosse realmente morta, finita dai sicari? Il destino di Agrippina non è mai stato acquisito una volta per tutte; anche Tacito ipotizza un progetto rivoluzionario di Agrippina: “non strisciante e velleitario, ma fulmineo e risolutivo” (p. 359).
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Di fronte a una Roma “gravida di colpe, in cui regnano i delitti, infuria l’empietà, dilaga la libidine, quid superest?”. Che cosa resta? Resta una donna che non si tira indietro e che nella natale Colonia, la città renana degli Ubii a lei dedicata, infiamma gli animi e dà vita a un piano inaudito: “unire la forza vergine dei germani, la loro purezza di sentire, il culto della libertà, la venerazione degli dei con la forza del diritto dei romani, la capacità organizzativa dello stato, la disciplina militare, la bellezza ed altro ancora. Onore, valore, lealtà, libertà, giustizia…” (p. 216).
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Non andò così, ma in questa donna morta una e più volte, dalla profonda maestà nell’agire e indipendenza nel pensare, è comunque bello scorgere - nella suggestione delle pagine che lievitano nel pathos - gli albori di un ideale, non ancora giunto a pieno compimento: quello di un’Europa dei popoli e delle leggi.
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Prof.ssa Antonia Piva - Filologa e preside del Liceo "Duca d'Abruzzi" di Treviso
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