Appuntamenti
28/08/2015
Chi ha rubato il confine?
Esce il nuovo libro di Mauro Manzin
Pubblicato il nuovo libro del giornalista Mauro Manzin, dal titolo Chi ha rubato il confine? Per meglio comprenderne il contenuto e i significati che l'autore ha voluto condividere con il pubblico attraverso l'opera, lasciamo volutamente la parola al suo collega del quotidiano "Il Piccolo", Alessandro Mezzena Lona, riportando l'articolo da lui firmato proprio sulle pagine del giornale di Trieste.
«Di là» c’era un mondo grande. Fatto di città e persone, campagne e spiagge, sogni e paure. Un universo che si allungava giù giù, lungo i Balcani, fino al confine con la Grecia. Un pianeta vicinissimo, eppure lontano miliardi di anni luce. Era la Jugoslavia di Tito, avamposto del comunismo a pochi chilometri da Trieste. Modello di una società che provava a sottrarsi ai miti e ai riti dell’Occidente capitalista. Microcosmo legato a questo angolo d’Italia da mille suggestioni, tradizioni, ricordi, eppure diviso da un confine invalicabile. Presidiato, sorvegliato con spasmodica attenzione.
Poi, un giorno, quel muro è crollato. Lasciando che la speranza di un futuro migliore corresse libera, senza più briglie. Ma, al tempo stesso, seminando di macerie, invisibili solo ai più distratti, la memoria di chi, quel mondo «di là», lo aveva vissuto sulla propria pelle. Annusato, condiviso, criticato e, sotto sotto, forse anche un po’ ammirato. E allora è normale che un giornalista attento da sempre a quello che accade “al di là” della frontiera ormai scomparsa come il giornalista de “Il Piccolo” Mauro Manzin si chieda adesso: “Chi ha rubato il confine?”. E per dare voce a un dubbio tormentoso, decida di fare il mestiere che gli riesce meglio: scrivere.
Nasce così un libro, che sta in perfetto equilibrio tra l’autobiografia, il racconto collettivo e la narrativa, intitolato proprio “Chi ha rubato il confine?”. Pubblicato da Goliardica Editrice (pagg. 98, euro 10), con una doppia prefazione del direttore de “Il Piccolo” Paolo Possamai e dell’ex corrispondente da Mosca per la Rai Demetrio Volcic, a cura dell’Associazione culturale Apertamente.
Per capire davvero questo libro sarebbe meglio partire dall’ultima pagina. Quando Manzin, ricordando la lezione di Scipio Slataper e del suo «Vorrei dirvi sono nato in Carso... Vorrei dirvi sono nato in Croazia» che apre il “Mio Carso”, si chiede: «Sono italiano? Certo, sono anche un sottufficiale dell’Esercito del primo battaglione San Giusto. A casa conservo orgoglioso il fazzoletto da battaglia e i gradi di sergente». E subito dopo aggiunge: «Sono sloveno? Certo, le mie prime parole le ho pronunciate proprio in sloveno, il sangue che mi scorre nelle vene è anche sloveno, molto istriano, di certo italiano». Per arrivare alla conclusione che lui, come gran parte delle persone che abitano queste terre, scopre «sempre di più di essere un gran bastardo».
E quel miscuglio di pensieri e saperi, di parole e ricordi, di dissidi e riconciliazioni, che Manzin si porta dentro, in fondo, sono la carta d’identità di chi è nato e ha vissuto in questo tormentatissimo corridoio d’Europa, dove i conti con la Storia si fanno a gran fatica, giorno dopo giorno. Con la convinzione che la partita, forse, non si concluderà mai. Perché troppo spesso, scrive Manzin, chi si aggrappa a qualche ideologia o rivendica certezze fin troppo granitiche finisce «solo a celare pesanti vuoti interiori».
Così, ragionando e ripensando, “Chi ha rubato il confine?” toglie dalla polvere i ricordi di un giovanissimo Mauro Manzin. Facendo riprovare, a lui per primo, ma anche a chi lo legge, l’emozione di certe partenze verso quel mondo “di là”. Viaggi sospesi tra il dubbio tormentoso «ci faranno passare il confine?», con tutte le cose preziose nascoste in valigia, la promessa di una vacanza in una terra legata ancora agli antichi riti della pesca e dell’agricoltura, il brivido impossibile di imbattersi nel corteo presidenziale che portava il maresciallo Tito in vacanza a Brioni.
In un pugno di pagine, riprendono vita le figure dello zio Etto, figura leggendaria di pescatore, capace di domare le bizze infinite del motore Tomos in barca, e le sfuriate della zia Albina, sua moglie, che lui sapeva esorcizzare con un «no, mia stela» sussurrato con un ghigno da Mefistofele innamorato. Italiani che erano rimasti “di là”, disprezzati da chi era dovuto fuggire. Dimenticati dalla loro stessa patria.
E poi ritornano le bottigliette di Jugokockta, la Coca-Cola autarchica della
Jugoslavia, i panini con il prosciutto che sapeva di terra e sudore, il pane morbidissimo, i ritratti del Maresciallo, un po’ partigiano, molto Clark Gable. Ritratto di un tempo perduto che oggi, forse, si fa ricordare con una nostalgia incanaglita.
Alessandro Mezzena Lona (da "Il Piccolo" del 27/08/2015)